I documenti del Concilio Vaticano II hanno spesso fatto uso della categoria di testimonianza. Essa è quindi divenuta elemento portante della moderna riflessione teologica sulla comunicazione della rivelazione divina per mezzo della fede.
Sulla scia delle note parole di Paolo VI, “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri… o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (Evangelii nuntiandi, n. 41), nella vita pastorale della Chiesa si afferma con frequenza che l’evangelizzazione odierna si dovrebbe basare principalmente sulla testimonianza, sia perché in essa si rispecchia appieno l’autenticità e la forza incisiva della fede vissuta, sia per evitare il pericolo di intolleranza nella comunicazione della fede attraverso parole di significato potenzialmente univoco. In sostanza, il cristiano è chiamato a evangelizzare principalmente testimoniando la sua fede di fronte al mondo.
L’enfatizzazione della testimonianza a spese della parola ha contribuito, però, a un certo accantonamento della parola di Dio predicata dai sacri ministri o comunicata nell’apostolato cristiano, un fenomeno che la Chiesa ha fatto notare diverse volte in tempi recenti. Questa relativizzazione della parola nei confronti della testimonianza va di pari passo con la priorità accordata da una buona parte della teologia all’“evento” rispetto alla “parola” nel processo della comunicazione della fede. La giusta articolazione fra questi due elementi, presente nel cuore stesso della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, risulta essenziale per impostare in modo corretto il lavoro di evangelizzazione della Chiesa, e permette di ritrovare un rinnovato equilibro tra testimonianza cristiana e annuncio della parola. La recente Esortazione apostolica Verbum Domini, nn. 97-98 ha richiamato l’attenzione proprio su questa reciprocità.